Brutti tempi per Google finito sotto indagine per la prima volta dall’Unione Europea.
In talia non è che vada poi tanto bene: l’era della condivisione, del tanto osannato “web 2.0” fatto di pulsantini “share” e “reblog” sparisce davanti la sentenza del giudice italiano che ha condannato alcuni dirigenti di Google per il video di YouTube del bambino down. Da leggere il parere di Vidi Down che ha portato avanti la causa.

Il caso riguardava Google Video e risale al 2006, il processo è cominciato ad inizio 2009: ne hanno già parlato Stefano, Luca e Guido secondo cui il problema non è il rapporto tra diritto d’impresa e privacy ma sul principio “secondo il quale l’intermediario risponde dei contenuti immessi in rete dagli utenti, la Rete che conosciamo è condannata all’estinzione.”

E’ d’accordo con Guido anche Google che sul suo blog espande il caso anche ad altri siti tra i quali community e social network che non dovrebbero nemmeno esistere se venisse seguita la linea di ragionamento della sentenza emessa dal giudice Oscar Magi:

But we are deeply troubled by this conviction for another equally important reason. It attacks the very principles of freedom on which the Internet is built. Common sense dictates that only the person who films and uploads a video to a hosting platform could take the steps necessary to protect the privacy and obtain the consent of the people they are filming. European Union law was drafted specifically to give hosting providers a safe harbor from liability so long as they remove illegal content once they are notified of its existence. The belief, rightly in our opinion, was that a notice and take down regime of this kind would help creativity flourish and support free speech while protecting personal privacy. If that principle is swept aside and sites like Blogger, YouTube and indeed every social network and any community bulletin board, are held responsible for vetting every single piece of content that is uploaded to them — every piece of text, every photo, every file, every video — then the Web as we know it will cease to exist, and many of the economic, social, political and technological benefits it brings could disappear.

La discussione e la soluzione finora è rimasta aperta con un punto interrogativo in evaso. Come dicevo già qualche anno fa il problema è sempre quello: chi controlla i contenuti su YouTube e nel Web?

[UPDATE]

– Voglio precisare il mio parere visto che tutto il mondo del web sta dando addosso all’Italia (ad esempio #italy oggi è trai trending topics di Twitter) ed al giudice (e si: che abbia un account su Facebook mi pare in questa faccenda irrilevante) quasi Google fosse un Dio intoccabile quando ci vorrebbe sempre rispetto per le sentenze e la magistratura, di qualsiasi paese sia. Insomma dire che Google is Evil o ancora che in Italia le nuove tecnologie sono ferme al tempo degli antichi romani mi pare esagerato e poco costruttivo.

Mi tocca citare di nuovo Stefano Quintarelli. Il mio pensiero infatti è simile a questo suo commento:

Siamo sicuri sicuri sicuri che YT avesse fatto tutto a norma ? (senza vedere le carte)
Se io apro un ufficio in USA e gestisco un web per il mercato USA e non metto i contatti per la DMCA (Digital Millenium Copyright Act), come previsto dalla legge, e se qualcuno usa il mio sito per piratare, cosa mi succede ?
questo e’ sufficiente per dire che negli USA e’ a rischio la comunicazione su Internet o ancora che e’ vietata la commercializzazione di contenuti ?
o forse, sbarcando in un paese e non adeguandomi alle norme, avrei io mancato il rispetto ad una legge del paese ?
possiamo giudicare senza conoscere i fatti ?
solo perche’ un giudice parla di Internet, deve per forza sbagliare ?

In fondo ha ragione Gaspar quando si chiede: se posto materiale protetto da copyright su YouTube, mi blocca subito; se invece metto episodi di bullismo, aspetta una eventuale segnalazione.
O in casi come questo addirittura un processo. Non credo fosse voluto, seppure il video si riferisce al lontano 2006, ciò che guasta il meccanismo di YouTube è la smania nel voler monetizzare il proprio servizio. E se il prossimo assetato di dollari fosse Facebook o Twitter?

3 Comments

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  • Sottoscrivo soprattutto le ultime tre righe. E su queste ho scritto anche sul mio blog, con qualche considerazione su cosa fare. Perché non si può aspettare sempre che un giudice agisca per poi legiferare, la logica (e il buon senso) imporrebbe il processo inverso.

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